Il testo che segue non è concluso e verrà probabilmente modificato
Lia era nata perfetta con un solo difetto. Leggeva gli scritti degli altri.
Trovare una busta chiusa, una lettera, un diario, un post-it incurvato nella spazzatura era per lei la tentazione più succosa, non guardarci dentro una sfida immane. Si vedeva ogni volta le mani schizzate di colpa eppure non riusciva a smettere, perché quella sensazione di onnipotenza effimera e segreta era per lei speciale. Moltissime volte rimaneva stupita di quanta malinconia trovasse nei diari dei più disparati e insospettabili individui che camminano questa terra, come se la penna stesse lì a richiedere uno specifico tributo umorale per iniziare a far uscire inchiostro. Comunque Lia teneva per sé questa trasgressione regolata, affinava le tecniche per non farsi scoprire e acquisiva sempre più uno sguardo disincantato o intenerito -a discrezione del contenuto degli scritti- sulla gente letta.
1
Un giorno tagliando i carciofi con la televisione accesa, si trovò a ripensare a un frammento del diario di un conoscente, che aveva aperto qualche tempo prima; questo recitava all’incirca così: “Quando ero piccolo il mio gioco preferito erano le costruzioni, ne esistevano a migliaia -non mi limitavo ai Lego- e io amavo risolverle tutte, incastrare quei pezzi per creare qualcosa di alto. Ecco, se penso alle costruzioni immagino sempre qualcosa di alto, mai qualcosa di orizzontale. Comunque oggi a lavoro un bambino ha distrutto il disegno di un suo coetaneo, portando OVVIAMENTE a un dramma di lagne e voci acute di consolazione, e io in quel trambusto ho pensato ad altre due cose:
-la distruzione ha in fin dei conti sempre lo stesso effetto finale (vedi il disegno rotto, carta straccia), la costruzione no
-è molto più facile trovare qualcuno con cui condividi cosa buttare giù, piuttosto che qualcuno con cui hai in comune la forma del costruire”
Quando Lia abbassò di nuovo lo sguardo su quello che stava facendo, i carciofi sfrigolavano nell’olio e le unghie delle sue mani erano annerite: si era infatti ostinata di nuovo a non usare i guanti oppure strofinarsi le dita con il limone prima di iniziare a tagliare (così da contrastare l’effetto del carciofo esposto all’aria). Aspettò un po’, quindi prese un gambo bollente dalla padella e se lo mise sulla lingua. Poi bevve un bel bicchiere d’acqua per sentire il sapore dolce scendere lungo la gola.
2
La ragazza quasi perfetta aveva una stanza tutta per sé, tre comodini con tre luci diverse, un armadio di legno di castagno e una scrivania bianca laccata. A casa sua si tramandava da generazioni l’usanza di non fare buchi nel muro, così entrando nella dimora si poteva notare un soqquadro di roba appoggiata, attaccata con il nastro adesivo o con le ventose ove possibile.
Pensare a una mensola per i libri strabordanti oppure ricevere in regalo un quadro o un poster, poteva creare disordini e riorganizzazioni degli spazi per giorni, tanto che i vicini pensavano sempre che i Tenebuf stessero per traslocare.
Invece alla fine non traslocavano mai e questo fatto, che avesse sempre vissuto dentro le stesse mura, era una cosa alquanto strana per i suoi compagni di classe, una cosa antica.
3
In un pomeriggio banalissimo a Lia capitò di fare un sogno riassumibile in questo modo: un uomo fa le ombre cinesi sulle pareti di camera sua, indisturbato, finché un’altra figura non arriva da lui, lo strattona e lo scenario diventa un’altra camera da letto, ma questa volta adornata di carta da parati. La seconda figura chiede quindi all’uomo di iniziare a fare le ombre cinesi lì, ma lui scuote la testa per cinque lunghe volte e poi con foga comincia a strappare tutta la carta da parati della stanza. Solo una volta finito, riprende il suo teatro di mani. L’altra figura allora gli chiede sbigottita: “Perché l’hai fatto?”
Lui risponde guardandosi le unghie: “Le ombre sarebbero state coperte, ora invece la stanza le accoglie di nuovo. Anche se bisogna dire che è stata spogliata, non era nuda come la prima, c’è differenza.”
4
La posizione in cui era più facile vedere Tenebuf padre consisteva in lui chino sul tavolo, a guardare le lenticchie. Anche quando non andavano a nessuno, quando era estate e far sobbollire del liquido in pentola era l’ultima delle aspirazioni, quando c’erano ospiti importanti, lui si prendeva il suo tempo per esaminare quei piccoli chicchi marroni, togliere i possibili sassetti, filtrare con lo sguardo. E Lia era sempre rimasta insieme innervosita e affascinata dalla ripetitività e perseveranza di questa pratica paterna, la riteneva un esercizio di pazienza che cozzava con le sue intemperie. Comunque non poteva negare che questa attenzione le avesse evitato tanti denti scheggiati.
Così da un po’ di tempo a questa parte, quando va alla lapide di Tenebuf padre non porta con sé i crisantemi e nemmeno i ciclamini, che alla faccia della ginestra leopardiana sono i fiori più resistenti del reame, secondo nonna Peppina “i suli che d’invernu se possono tenè”, ma un sacchetto di lenticchie. Lo buca e si mette a contare, con il capo chino, sulla pietra, mentre gli altri visitatori la osservano arrampicati sulle scale o con i vecchi contenitori dei detersivi riempiti d’acqua, a mezz’aria.
5
“tu sei un mucchio di cose. però stai con me solo a mozzichi. parliamo”
Lia stava facendo la lavatrice dei colorati quando le rivennero in mente le parole, tutte in minuscolo, di un post-it attaccato dentro all’agenda di G. Stropicciando il collo di una camicia si chiese intanto chi poteva averlo lasciato lì e poi in che senso a mozzichi. Ma soprattutto iniziò a pensare al Mucchio: sostantivo maschile, che si tratti di pietre, di spazzatura, di vestiti, il mucchio è un’entità di elementi uniti provvisoriamente, spesso neanche tanto simili fra loro, talmente sovrapposti da finire per essere non più riconoscibili come singoli. Si ricordò di quell’aggregato di corpi sulla roccia a Santa Marinella, della commozione straniante che le aveva provocato quella vista.
Sì -“dannazione un altro calzino spaiato”- decisamente quella persona teneva molto a G.
Da quel momento, ogni volta che incrociava il collega al parco dei cani non riusciva a non pensare: “Chissà se alla fine si è trovato in quel mucchio o ci si è perso.”