Scorie

L’aria è ferma. Lara cammina veloce al margine della strada provando a opporre il movimento delle sue gambe a quell’immobilità pervasiva, ma il suo tentativo le ritorna indietro come un boomerang. É strano: ha sempre pensato al rumore come qualcosa che attraversa, ancor prima di qualcosa che si percepisce con l’udito, eppure la sua città produce un rumore che non sposta nulla. Produce e non sposta.
Il cellulare vibra nella tasca, Lara lo prende e fa scivolare il pollice sullo schermo, quindi legge il messaggio con un occhio semichiuso a causa del sole:”Ehii ci vediamo oggi? Da me?” Alza lo sguardo al cielo: si era scordata di Edoardo e in tutta onestà non ha la minima voglia di vederlo, comunque risponde con un simulacro di entusiasmo “Siii, facciamo alle 5” e si gira per tornare a casa a cambiarsi.
Quando entra nel monolocale di lui si prefigura la sequenza di quello che sta per succedere: lui le chiederà di bere qualcosa sul piccolo terrazzo e parleranno della loro settimana, poi ci sarà quel freddo necessario per rientrare -anche quando è estate e si suda solo muovendo i muscoli facciali- e mettersi a vedere lo stesso film mediocre, che non termineranno mai perchè è solo un pretesto per sentirsi meno in imbarazzo nell’iniziare a scopare. Mentre si srotola tutto questo nella sua testa, Lara fa caso ai nuovi quadri sulle pareti e alle chiavi del motorino, che sono in cucina e non all’ingresso come al solito; manca anche lo scottex e c’è una pila di camicie tutte arruffate sulla sedia di legno vicino alla credenza che emana un odore meraviglioso. Sorride, ha sempre notato e apprezzato silenziosamente il fatto che Edoardo usi l’ammorbidente e il ferro da stiro molto più di quanto non faccia lei. Quando, poco dopo, le sue dita la ricalcano, Lara non riesce a non pensare a quanto le è incomprensibile che lui sia dentro di lei se lei è fuori da sè. A un certo punto inizia a tossire, di quella tosse polverosa e continua che le fa lacrimare gli occhi e arriva senza preavviso o apparente motivo, quindi si interrompono e Edoardo le va a prendere un bicchiere d’acqua.
“Scusami” dice Lara dopo aver deglutito,
lui le asciuga una lacrima e replica:”Non ti preoccupare, ti conosco”

Tornata in strada l’aria è ancora ferma, ma quasi più rovente di prima su guance e sopracciglia. Si sente una campana di sottofondo e Lara si ricorda che è domenica, perciò segue quel rumore che, effettivamente, si muove. Al suo arrivo la celebrazione è finita e la navata è vuota a eccezione di un paio di signore che stanno infilando le monete per accendere le candele e sussurrano chissà quali desideri nelle loro preghiere, chissà quali preghiere annidate nei loro desideri. Di nuovo il cellulare le vibra e il messaggio è di Edoardo che dice:”Hai lasciato qui le cuffiette”
e sotto:”Devo ammettere che mi mancherai ora che parti”
A Lara iniziano a pulsare le tempie, si sente ancora addosso l’impronta dei suoi polpastrelli e i piccoli morsi dei denti irregolari e pensa che anche lei lo conosce, conosce quella casa, le sue abitudini, senza dubbio gli vuole bene. Se gli mancherà? Sì, la verità è che già ne sente l’assenza e tuttavia è consapevole di non esserne innamorata.
“Ti voglio bene e mi manchi”
“Ti voglio bene e mi manchi, ma non ti amo”
“TI VOGLIO BENE E MI MANCHI, MA NON TI AMO PIÚ”
Lara è piegata in ginocchio, a metà della navata di fronte al crocifisso, quando sente se stessa dire a voce alta queste parole e piange lacrime di liberazione, perchè sa che non parla solo di Edoardo.
É rimasta solo una delle due signore: la osserva a debita distanza per un po’ di tempo prima di avvicinarsi, poi senza dire nulla la guarda, le prende le mani, mette al centro di uno dei due palmi una delle sue moneta e le richiude le dita, ad abbracciare la preghiera-desiderio che le ha regalato.
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15 settembre esame di inglese: una vita di esami di inglese ed essere sempre lí lí, sull’uscio della padronanza della lingua ma senza entrare. Celeste sposta mucchietti di sabbia con i piedi accompagnata dal podcast britannico che sta ascoltando nelle cuffie, unico metodo di studio che riesce a concepire d’estate. Sta per abbandonare anche questo tentativo di ripasso e rimettere il cellulare surriscaldato al riparo, quando l’host dice nella sua pronuncia perfetta “Overwhelmed”, da dizionario: “having too much” and “feeling defeated”. Una pienezza bucata, sconfitta.

“Come si riconosce il varco che trasforma il possesso in dipendenza e ne fa motore del nostro sentimento di insoddisfazione?”

Celeste non sa neanche piú il tema della puntata e ciononostante quell’unica parola le sembra cosí adatta, cosí giusta: se la visualizza come la schermata di Puzzle Bubble dove il cielo fatto di bolle continua a a scendere e il piccolo drago deve mirare bene e per tempo perché se, sordo, inizia ad accumulare, rischia di essere schiacciato, finisce in balia delle bolle che gli arriveranno. E i colori non sono sempre quelli di cui ha bisogno.

Si butta in mare in modo sgraziato e l’acqua che la accoglie é calda, cosí si allontana dalla riva a occhi chiusi, ricercando le correnti fredde che resistono anche se tutto intorno scotta.
“Acqua che insegna, acqua che possiede la nostra genealogia e il nostro cammino: abbiamo poggiato i piedi fuori da lei ma non ce ne siamo liberati, ci contiene più di quanto immaginiamo.”
Celeste esce dal mare e si asciuga nel silenzio della baia, poi continua a spostare mucchietti di sabbia con i piedi, scoperchiando a volte l’esistenza di insetti a volte di rifiuti
e poi ricoprendola.
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leggente

Il testo che segue non è concluso e verrà probabilmente modificato

Lia era nata perfetta con un solo difetto. Leggeva gli scritti degli altri.

Trovare una busta chiusa, una lettera, un diario, un post-it incurvato nella spazzatura era per lei la tentazione più succosa, non guardarci dentro una sfida immane. Si vedeva ogni volta le mani schizzate di colpa eppure non riusciva a smettere, perché quella sensazione di onnipotenza effimera e segreta era per lei speciale. Moltissime volte rimaneva stupita di quanta malinconia trovasse nei diari dei più disparati e insospettabili individui che camminano questa terra, come se la penna stesse lì a richiedere uno specifico tributo umorale per iniziare a far uscire inchiostro. Comunque Lia teneva per sé questa trasgressione regolata, affinava le tecniche per non farsi scoprire e acquisiva sempre più uno sguardo disincantato o intenerito -a discrezione del contenuto degli scritti- sulla gente letta.

1

Un giorno tagliando i carciofi con la televisione accesa, si trovò a ripensare a un frammento del diario di un conoscente, che aveva aperto qualche tempo prima; questo recitava all’incirca così: “Quando ero piccolo il mio gioco preferito erano le costruzioni, ne esistevano a migliaia -non mi limitavo ai Lego- e io amavo risolverle tutte, incastrare quei pezzi per creare qualcosa di alto. Ecco, se penso alle costruzioni immagino sempre qualcosa di alto, mai qualcosa di orizzontale. Comunque oggi a lavoro un bambino ha distrutto il disegno di un suo coetaneo, portando OVVIAMENTE a un dramma di lagne e voci acute di consolazione, e io in quel trambusto ho pensato ad altre due cose:

-la distruzione ha in fin dei conti sempre lo stesso effetto finale (vedi il disegno rotto, carta straccia), la costruzione no

-è molto più facile trovare qualcuno con cui condividi cosa buttare giù, piuttosto che qualcuno con cui hai in comune la forma del costruire”

Quando Lia abbassò di nuovo lo sguardo su quello che stava facendo, i carciofi sfrigolavano nell’olio e le unghie delle sue mani erano annerite: si era infatti ostinata di nuovo a non usare i guanti oppure strofinarsi le dita con il limone prima di iniziare a tagliare (così da contrastare l’effetto del carciofo esposto all’aria). Aspettò un po’, quindi prese un gambo bollente dalla padella e se lo mise sulla lingua. Poi bevve un bel bicchiere d’acqua per sentire il sapore dolce scendere lungo la gola.

2

La ragazza quasi perfetta aveva una stanza tutta per sé, tre comodini con tre luci diverse, un armadio di legno di castagno e una scrivania bianca laccata. A casa sua si tramandava da generazioni l’usanza di non fare buchi nel muro, così entrando nella dimora si poteva notare un soqquadro di roba appoggiata, attaccata con il nastro adesivo o con le ventose ove possibile.

Pensare a una mensola per i libri strabordanti oppure ricevere in regalo un quadro o un poster, poteva creare disordini e riorganizzazioni degli spazi per giorni, tanto che i vicini pensavano sempre che i Tenebuf stessero per traslocare.

Invece alla fine non traslocavano mai e questo fatto, che avesse sempre vissuto dentro le stesse mura, era una cosa alquanto strana per i suoi compagni di classe, una cosa antica.

3

In un pomeriggio banalissimo a Lia capitò di fare un sogno riassumibile in questo modo: un uomo fa le ombre cinesi sulle pareti di camera sua, indisturbato, finché un’altra figura non arriva da lui, lo strattona e lo scenario diventa un’altra camera da letto, ma questa volta adornata di carta da parati. La seconda figura chiede quindi all’uomo di iniziare a fare le ombre cinesi lì, ma lui scuote la testa per cinque lunghe volte e poi con foga comincia a strappare tutta la carta da parati della stanza. Solo una volta finito, riprende il suo teatro di mani. L’altra figura allora gli chiede sbigottita: “Perché l’hai fatto?”

Lui risponde guardandosi le unghie: “Le ombre sarebbero state coperte, ora invece la stanza le accoglie di nuovo. Anche se bisogna dire che è stata spogliata, non era nuda come la prima, c’è differenza.”

4

La posizione in cui era più facile vedere Tenebuf padre consisteva in lui chino sul tavolo, a guardare le lenticchie. Anche quando non andavano a nessuno, quando era estate e far sobbollire del liquido in pentola era l’ultima delle aspirazioni, quando c’erano ospiti importanti, lui si prendeva il suo tempo per esaminare quei piccoli chicchi marroni, togliere i possibili sassetti, filtrare con lo sguardo. E Lia era sempre rimasta insieme innervosita e affascinata dalla ripetitività e perseveranza di questa pratica paterna, la riteneva un esercizio di pazienza che cozzava con le sue intemperie. Comunque non poteva negare che questa attenzione le avesse evitato tanti denti scheggiati.

Così da un po’ di tempo a questa parte, quando va alla lapide di Tenebuf padre non porta con sé i crisantemi e nemmeno i ciclamini, che alla faccia della ginestra leopardiana sono i fiori più resistenti del reame, secondo nonna Peppina “i suli che d’invernu se possono tenè”, ma un sacchetto di lenticchie. Lo buca e si mette a contare, con il capo chino, sulla pietra, mentre gli altri visitatori la osservano arrampicati sulle scale o con i vecchi contenitori dei detersivi riempiti d’acqua, a mezz’aria.

5

“tu sei un mucchio di cose. però stai con me solo a mozzichi. parliamo”

Lia stava facendo la lavatrice dei colorati quando le rivennero in mente le parole, tutte in minuscolo, di un post-it attaccato dentro all’agenda di G.  Stropicciando il collo di una camicia si chiese intanto chi poteva averlo lasciato lì e poi in che senso a mozzichi. Ma soprattutto iniziò a pensare al Mucchio: sostantivo maschile, che si tratti di pietre, di spazzatura, di vestiti, il mucchio è un’entità di elementi uniti provvisoriamente, spesso neanche tanto simili fra loro, talmente sovrapposti da finire per essere non più riconoscibili come singoli. Si ricordò di quell’aggregato di corpi sulla roccia a Santa Marinella, della commozione straniante che le aveva provocato quella vista.

Sì -“dannazione un altro calzino spaiato”- decisamente quella persona teneva molto a G.

Da quel momento, ogni volta che incrociava il collega al parco dei cani non riusciva a non pensare: “Chissà se alla fine si è trovato in quel mucchio o ci si è perso.”

Mannaggia

Sono uscita dalla sala del cinema
che davvero non c'avevo capito niente
di quello che avevo visto
e sento
tanto che mi so dovuta fa le scalinate prima della metro
un par de volte su e giù
prima di schiarirmi le parole.
Il tornello poi non mi faceva passare,
eddaje a spigne ma niente,
non mi riconosceva manco lui
e così ho perso il treno direzione Jonio
e la coincidenza per quello di casa.
Dentro a ste situazioni
inizio a ripetere, schiudendo le dita,
i numeri di telefono che conosco bene
chè io me la ricordo la faccia 
di A. uscito dal gabbio 
mentre mi chiede di chiamare sua madre
anche se non vorrebbe, perchè è l'unico numero che ricorda a memoria.
Comunque alla fine sotto al tetto ce so tornata,
ho posato tutte le borse che mi porto appresso
tranne quelle dell'occhi,
e ho pensato che l'università è un bel nome.

Oggi sto arrampicata sulla vetrina della libreria,
copertina blu de là, copertina gialla de qua
mi sento un po' equilibrista di cose belle eh
ma è la terza volta che la rimetto a posto
e niente, basta un secondo che mi distraggo, casco,
sbatto il mento e succede na cosa assurda:
perdo i denti.
Tutti? Tutti.
Mi so sempre detta che questo mio essere piccola
me rendesse adatta a incastrarmi,
non a scomparire
ma adesso è l'unica cosa che vorrei.
La verità è che nessuno se n'è accorto,
so solo io che me manca qualcosa
ma questo non lo rende meno reale
e qua fa freddo pure se non posso batte i denti.
Dicevo, nessuno se n'è accorto 
e nessuno se ne accorge
finchè non ti fanno ride, 

mannaggia a te


 

Teatro di bisogni

[Lei entra in scena e si lascia cadere, un tonfo sul pavimento di legno del teatro vuoto]

Ho la brutta abitudine di lasciare la porta aperta.

Sì sì, letteralmente. Per esempio quando devo scendere sotto casa a prendere due passate di pomodoro al congelatore (che sicuramente non riuscirò ad aprire in tempo per il pranzo perché strette troppo) lascio la porta di casa aperta. Se devo andare a raccogliere i panni, puntualmente stesi due minuti prima che inizi a piovere, la lascio aperta. Spengo la luce della stanza per la notte e controllo con la coda dell’occhio che ci sia uno spiraglio di luce che significa che

La porta è aperta.

Sono vent’anni che mi chiedo perché questa fissazione

[le venature del legno catturano la sua attenzione per qualche secondo, poi rialza lo sguardo verso la platea invisibile]

La risposta ancora non mi è venuta a trovare, però una cosa credo di averla capita: abbiamo estremo bisogno di qualcosa che ci definisce e insieme ci sfugge.

[Propriocezione:

Mano. Piede. Tavolo.

Batto. Batto. Rialzo.

Sospiro. Giro. Ciglia.

Occhi. Sposto. Su. Giù. Dentro.

Freddo. Graffio. Ruvido.

Aspro. Attonito.

Mano. Piede. Tavolo.

Daccapo.]

La punteggiatura per dire è un’altra cosa che definisce e insieme sfugge.                                          Corre tra le parole con la superbia di chi sa di avere il potere di capovolgere un significato, di richiamare un certo tono di voce (e non un altro), di rendere una lettera degna di atterrare su bacio o bitume.

[Sul ciglio delle tue ciglia ]

La punteggiatura detta i tempi. E dà importanza ai silenzi.

Tu lì in fondo, leggimi una storia, per favore, e fa’ attenzione ai silenzi,

forse così ricorderò di rispettare i miei.

[Al bordo della tua bocca]

Quest’anno poi (si appropinqua il Natale duemilaventi signori) è fatto di silenzi e voci, di sostanza impalpabile: ricco di segni sulla faccia della storia eppure sospeso su una nuvola, disdegnato dagli sguardi (troppo spesso corti) della gente, sguardi accoccolati tra ricordi o congiunzioni di tempo future, perché anche le nuvole possono essere pesanti alle volte.

 [Una congerie di suoni senza maschera]

Pochi giorni fa sono andata nella città grande che ha registrato il mio primo pianto. Stavo passeggiando tra fiumi di persone e ne ho vista una al margine: non ricordo quasi nulla fuorchè i suoi occhi. Ho fatto appena in tempo ad incontrarli, eppure sono sicura tremassero di dignità, messa a rischio, vacillante ma radicata lì dov’è; ho dovuto accelerare il passo e farmi travolgere da tutto il resto per scongiurare la minaccia delle lacrime. Mi sono sentita così spoglia. [Gli occhi non riescono, ma la voce trema]                               E allora ho pensato che fa schifo e che qui potete continuare voi.

[Il ticchettio delle lancette è ingombrante]

Abbiamo estremo bisogno di qualcosa che ci definisce e insieme ci sfugge.

Io ne ho tantissime.

Eppure la madre di tutte è sotto il nostro mento spigoloso

perché noi stessi ci definiamo reciprocamente e reciprocamente ci sfuggiamo ed è una danza meravigliosa.

Tutte

le volte

che ce lo ricorderemo

punto fermo

silenzio

[Tripudio di corpi che scalpitano]

Come te lo spiego

Non mi capita mai di avere veramente freddo. Di farci caso, forse.

Metti un’altra maglia, forza. Dove vai con quei piedi scalzi. Scherzi che hai solo il giacchetto di jeans, è dicembre per l’amor di Dio.

Sorrido all’immagine delle amiche di una vita affezionate alla canottiera, a mia nonna nascosta sotto sette strati, ai cappotti a peso d’oro.
A me sentire addosso la brezza gelata sa di rinascita: quella strada in bicicletta per andare al liceo alle sette e quaranta di mattina – chi prendo in giro, sarà stato sicuramente più tardi-con la gonna, le calze già in procinto di rompersi e gli occhi assonnati, era catartica. E vogliamo parlare delle uscite d’inverno? Il mento sotterrato nei colli alti dei maglioni che pizzicano, finché non si entra in un interno e il caldo avvolgente scioglie i muscoli contratti, rende quelle mura qualsiasi un rifugio.

Sono in bagno, per lavarmi prima di dormire, diciotto gradi abbondanti gravitano nella casa. Lo specchio mi scruta aspettando che mi metta il pigiama ma io sto ferma, un minuto, due, tre e ancora da capo. E allora  ho pensato che non ci riuscivo perché avevo freddo. Io, che avevo freddo.
Come te lo spiego che ho freddo quando mi spoglio? Dietro il cotone tolto si svelano le curve del mio corpo disegnate con distratta dolcezza, brividi risalgono la colonna fino alle labbra, una accavallata all’altra.
Ho bisogno di un calore che non bruci
stai dicendo che puoi esserlo per me? Se solo
ti lasciassi entrare,
le tue mani
sarebbero onde salate
sulla mia pelle arida di baci
e i tuoi sussurri all’orecchio
comico solletico.
Io indagherei il tuo collo
Covo di odori
Cercherei di scoprire se c’è spazio
Anche per il mio
E mi metterei in punta di piedi
Per guardare meglio
oltre gli occhi a mandorla che porti
mentre le tue dita scendono a cingermi i fianchi
e io posso appoggiare la fronte sulla tua
e non mi servono alfabeti
per parlarti con la lingua.

Albero spoglio
Cadono le foglie d’inverno
La legna brucia
Io no
E nemmeno tremo.

 

Immeritatamente anche qui. Fantastico! è un bel progetto, sbirciate.

Fune d’estate

Estate ciliegia sfumata

condita in aperta cena

luce, ancora.

Residui di note

rimbombano rari

su chicchi di sale

che imperlano carnagioni pastello

e bocche cremisi.

Nottebuio

Il castello di sabbia si erge

dirimpetto a vento e marea

e i gabbiani lasciano sempre

orme intatte

invece nostri

i fiammiferi effimeri

e lo sfrigolìo

di un fuoco senza fiamma.

 

 

La gomma masticata da denti ignoti

Ha riparato lo scudo della camera d’aria

e la bici è tornata a stridere sull’asfalto caldo

in fuga con un cornetto in ostaggio.

Tu dormi dove non sai

Che gli occhi si abituano ad essere

stupidi stupiti

e carponi

scava la città

dovessi mai, trovare conchiglie

quasi risposta

alla voce che hai affidato ad una bottiglia di mare.

 

 

Cosce nude strisciano contro

Coperte coprenti

buttale via

Dal balcone

Diventino fune

O fine.

 

 

Bau

Tic, toc, tic, toc. Francesco apre gli occhi quei sessanta secondi esatti prima che suoni la sveglia. Afferra i vestiti freddi, le chiavi ed esce di casa cercando di non far rumore con quei piedi pesanti che si ritrova. Romano da una vita, quel nome come un marchio di riconoscimento perché nella Capitale, ti piaccia o no, il riferimento a Totti è immediato, 44 anni che iniziano a farsi sentire, 20 da lavoratore dell’Ama, 16 come compagno di ogni giorno di Claudia.

Le luci dell’alba ancora non si palesano: d’altronde sono solo le cinque del mattino e ad Aprile il cielo non si squarcia di rosa prima delle sei e trenta, Francesco l’ha imparato. Sale sul camion ed ecco l’odore acre, abituale eppure oggi insopportabile, perché messo in imbarazzo dal profumo che la primavera sprigiona nell’aria, quasi orgogliosa. I gesti sono ripetitivi, automatici, le strade scorrono via sul finestrino.

“Da grande voglio fare”: ora completa. La mano sul fuoco che il lavoratore dell’Ama non compare fra le opzioni. Ci sono certi lavori che agiscono quasi nell’ombra e vi rimangono. Sono essenziali, eppure fare il badante, la netturbina, la benzinaia, il contadino-e vaffanculo alle categorie mentali che ci fanno pensare prima a l’infermierA e il politicO e non viceversa – arreca sempre quel pizzico di vergogna. Francesco come ci è finito a fare quel mestiere non lo ricorda, perché alla fine sì i sogni, ma la verità è che la vita è spesso questione di occasioni. Nonostante tutto però gli piace: può ascoltare un silenzio sconosciuto dai più e pulire la spazzatura del mondo, se non altro quella tangibile.

Il Bar di Peppe è ancora chiuso. Accanto, il primo cliente in attesa ha il pelo bianco e marrone e guaisce.                        “Vaoh e tu che ce fai qui bestiaccia, ti sei perso?” Francesco è sceso dal veicolo e avvicina il viso al muso del cane, non ne ha paura. E l’animale lo sente, apre i denti gialli e gli ride con la lingua penzolante; ora non guaisce più. “Vabè bello io vado” afferma Francesco dopo un’ultima coccola, e fa per riaccendere i motori. In quell’attimo che serve alla porta per chiudersi, il cane fa un balzo ed è di fianco all’uomo. Lui scuote la testa a mo’ di bonario rimprovero ma non si oppone, “Ti chiamerò Cappuccino bestiaccia che non sei altro”. Lui abbassa le orecchie e continua a rimanere immobile sul sedile, quasi ci fosse abituato. Poi tutto d’un tratto inizia ad abbaiare e abbaia più forte, sempre più forte. “Ee zitto, mi vuoi far svegliare la vecchia Giovanna, buonanima di questa palazzina?!” ma Cappuccino non ha intenzione di smettere, allora Francesco alza gli occhi al cielo, trattiene qualche imprecazione e apre la porta della vettura.

Il cane non se lo fa dire due volte e inizia a correre, diretto verso alcuni alberi che si stagliano lì in lontananza. L’uomo non capisce, ma d’altronde, quindi lo segue. Non riesce a stare al suo passo :” Porca vacca e tu mo da dove l’hai tirata fuori tutta questa forza?”. Il vento scompiglia i capelli brizzolati che non ha pettinato e il sole timido bacia la sua fronte e le sue labbra. L’animale finalmente si ferma e il Romano affaticato alza lo sguardo da terra: davanti la vista della sua città di una bellezza prepotente. Cappuccino si volta, come a voler sorprendere il suo nuovo amico nel momento dello stupore e il tempo, metronomo dell’esistenza, per un attimo si arrende anche lui.

Il turno di Francesco è terminato e la strana coppia è davanti al Bar di Peppe, di nuovo, ora aperto. Il quarantenne è entrato a prendersi un cornetto, il cane lo aspetta e quando finalmente lo vede uscire, con i baffi sporchi di zucchero, scodinzola ed abbaia, una volta sola. Francesco si piega e avvicina la mano, Cappuccino fa un passo avanti e strofina il suo naso umido sul palmo dell’uomo. Chissà cosa vedono i clienti del bar, ma per i due quello è il momento dei saluti e quello conta. Quindi il cane prende e si allontana e Francesco pensa che forse lo rivedrà, o forse no, perché in fondo è una bestiaccia senza collare, libera come l’erba. Poi sale in macchina: è ora di andare a casa.

 

Sei tornato e dormi come un bambino: io ho ancora gli occhi impastati ma non posso fare a meno di sorridere, mentre sento il rumore del tuo fiato e il calore del tuo battito e penso che è la mia carezza.                                                                                                               

Generazione / Weltanschauung

So fija della generazione
dell’insicurezza che va de fretta,
pure lei.
L’ansia è sorella delle bugie
Dette a sguardi spenti
E unghie mozzicate,
che poi magari ingannano
ma non ce credono manco loro.
L’altro giorno stavo per strada
Che se sa, è un po’ la vetrina de sta vita
E mi è sembrato di vedere tante braccia ciondolanti
E ancora più strano
C’avevano tutti la bocca enorme
E le orecchie piccole piccole, quasi inesistenti
Mi so chiesta a che serve avecce una bocca così se non puoi sentì niente.
L’altro giorno ho visto l’altro
Me so un po’ spaventata
Era troppo uguale a me.
Che poi io chi sono
Mica lo so
e vorrei che me lo dicesse qualcuno
invece er silenzio
solo la voce mia insostenibile
e allora come un pesce
mi butto nella rete tesa
almeno così so dove sto andando.
Quando me metto a guardà il Cielo
Penso che nessuno è Atlante
E che semmai è a noi che serve qualcuno a sostenecce
La cazzata de esse titani e non volerla
La cura
Lasciamola alla mitologia.
Non mi so spiegà,
Perché sto mondo complesso lo riempiamo di nero e bianco
Se l’occhio nostro, pure fosse uno sbajo,
Ci fa vedè tutti i colori.
Stamattina mi sentivo schiacciata dentro al letto
Ho fatto ‘n sogno dove nun c’avevo forma
Diventavo come chi mi passava davanti
Il doppione de una figurina
Allora mi sono arrabbiata, mi so fatta tutta rossa
E i miei contorni erano irregolari
Me sentivo più soddisfatta
Però La Grande Sorella Società me guardava strano
quindi me so vergognata
e alla fine ero solo un grumo di polvere
Nudo.
Ho conosciuto un bimbo
Lui aveva pianto per la prima volta una settimana fa
Io non ricordo l’ultima
J’avrei voluto stringe la mano ma era piccina come le cose preziose
In tre respiri dormiva sulla spalla de sua mamma
Come fosse nel posto più sicuro del mondo;
aho quella sera il sorriso stampato sulla faccia mia
non era d’inchiostro simpatico.

Lo sai tu qual è il bello del mare?
Pure se ne vedi solo un pezzo sai che continua.
So fija di una generazione di pezzi
Ma so che può essere mare.

 

Immeritatamente anche qui. Fantastico! è un bel progetto, sbirciate.

La musica è partita

23 marzo 2020

La musica è partita. La inseguo? Non so se ne ho le forze. Sì ma dove sta andando? Devo scoprirlo. Poso il piede e divento pavimento gelato. I miei muscoli si risvegliano uno ad uno e danzo, è un lento tra me e la superficie. Un fascio di luce urta le mie palpebre ancora chiuse: il mondo fuori sta aprendo le persiane per far entrare l’aria di un nuovo giorno. Vado in cucina e addento i biscotti con l’albero di albicocco davanti a mo’ di sfondo: è primavera e i suoi fiori di bellezza sembrano formare un viso che mi guarda. Aspetto che prenda vita e parli, vorrei sentirmi Alice nel paese delle meraviglie o il personaggio di una fiaba strampalata, di quelle che si raccontano per dormire, perché portano altrove. Metto la tazza nel lavandino con i piatti di ieri sera in disordine. Avevo promesso di lavarli io cazzo, e invece ancora una volta sono cascata dal sonno, o meglio dal sogno, il mio posto sicuro di sempre, la giostra colorata delle mie notti.

Gli altri della casa ancora dormono e c’è silenzio, spalanco le finestre e vedo le ombre nelle abitazioni, ma c’è silenzio anche lì. Sembra l’atmosfera che si crea appena dopo una nevicata, solo che non ci sono fiocchi soffici ad accarezzare le strade e non ci sono persone ad accarezzarsi per le strade.

Devo andare a far spesa, è il mio turno, quindi prendo il portafoglio, le chiavi, gli occhiali e la mascherina che mi copre naso e bocca. E’ per proteggere gli altri da te, hanno detto, e la stritolante sensazione di essere un potenziale incosciente pericolo per qualcun altro, assale. Davanti al supermercato riconosco la mamma dei gemelli della mia via, quelle piccole pesti sputa-energia con cui ho passato alcuni pomeriggi, e guardando in quella direzione le sorrido. Non ricambia. “E’ sovrappensiero” mi dico, un po’ delusa. Poi ricordo che il mio sorriso è coperto.

Sono in casa, sempre in casa. Mia madre è al cellulare e continua a intessere le sue relazioni vicine ed oltreoceano, mio padre e mia sorella hanno riesumato fisarmoniche probabilmente dell’anteguerra e si cimentano in un concerto improvvisato. D’altronde sono quasi le sei di pomeriggio: il Paese di cui son parte esce nei giardini, sui balconi, dalle finestre di un monolocale angusto, e canta. C’è chi strilla l’inno patriottico, chi la canzone dell’infanzia, chi si è dimenticato e intona il canto del cigno, chi osserva e basta: solitudini che non vanno a tempo ma si cercano dentro lo spartito impolverato della solidarietà.  Occhi esterni hanno decretato che questo poteva riuscire solo in Italia: non so se “riuscire” sia il verbo giusto, ma ho pensato che forse sì, forse è vero.

Il cielo ha mangiato tutte le nuvole questa sera e ci sono delle stelle tremende. Sono sul terrazzo, sì sempre quello della musica e dell’albero di albicocco dai tratti antropomorfi- quasi quasi adesso ci riconosco due occhiaie – e mi godo l’aria svestita, leggera. Ai miei occhi bruni e diversi viene un po’ da piangere: io che ho sempre amato il respiro, ora sono portata a temerlo e questo fa male. Poi il pensiero vola alla gente che si sta spaccando le mani e i nervi per ogni singolo respiro che gli capita davanti e allora il mio viso si fa superficie liquida ma il cuore è caldo, più forte. Mi sento scoperta, non so decifrare i due cerchi gialli che ho davanti, sono le stelle tremende o il gufo che mi pare di aver sentito in qualche notte incauta? Un suono grave rimbomba nel buio ed ho il mio responso. Credo stia intonando un richiamo d’amore, che riceve solo la risposta dell’eco. Mancanza carogna, cosa darei ora per poter addormentare la testa sull’incavo del tuo petto. Quando tutto questo tramonterà, rimpareremo a toccarci e sarà terribile e straordinario, i Greci dicevano deinòs.

Rientro in casa e il letto ancora non mi chiama. Mi faccio guidare da movimenti di quando ero bambina e mi trovo a testa in giù sul divano, le mani sui cuscini per reggermi, le gambe in alto sul muro. Quanto volte ho immaginato di camminare sul soffitto e andare a prendermi un romanzo sugli scaffali della libreria su su in alto, dove, piccolina, non arrivavo nemmeno con l’ausilio di una sedia. Avrei bisogno di una fiaba di quelle strampalate, che portano altrove.

Immeritatamente anche qui. Fantastico! è un bel progetto,sbirciate.